Trovare, capire: sono due parole che hanno accompagnato Renato Ferrari, l’indimenticato autore de Il gelso dei Fabiani, lungo il corso della vita. Aveva studiato sui banchi delle scuole dell’Impero austro-ungarico quando l’aquila bicipite di Francesco Giuseppe era ancora in grado di reggere, più o meno saldamente, le redini di quel vasto microcosmo. Una piccola parte delle storie scritte e riscritte sotto l’occhio vigile della moglie Cornelia formano questo volume. Alcune sono già state pubblicate, nel 1983, in quella sorta di piccola antologia che portava il nome di Cani e gatti a Trieste. Altre giacevano, non dimenticate, tra le molte carte che la figlia Erica custodisce a Milano.
Sono pagine scritte in un arco di tempo amplissimo, tra il 1923 e il 1970. Racconti che scavano dentro l’anima di Ferrari, che lo costringono a raccontarsi in pubblico. Frammenti di un’autobiografia capaci di tracciare il divenire dell’uomo, dello scrittore, forse meglio di qualsiasi biografia messa assieme da altri. Confessioni eretiche, meditazioni scomode, ritratti limpidi e nitidi di chi non ha mai cercato di nascondersi dietro le parole. A far da contraltare alla Storia, nei dodici racconti di questo libro, c’è una presenza silenziosa, che, però, giganteggia. Un comprimario che diventa spirito guida. Un fondale che, a poco a poco, raggiunge il centro del palcoscenico e s’impone con forza. È il Carso, terra-madre, arido paesaggio che solo le anime sensibili sanno apprezzare nella sua scontrosa grazia. Un mondo senza tempo, dove i sogni e le illusioni possono trovare rifugio.