Mons. Antonio Santin, quando nel 1962 inizia il Concilio Vaticano II, ha 68 anni, si è formato nell’Istria veneta, ha studiato teologia a Gorizia e a Zaticna (Carniola), si è specializzato alla Scuola sociale cattolica di Bergamo. Fonda la sua teologia sulla Scrittura e sulla Tradizione senza indulgere a novità esegetiche o interpretative.
Avverte la responsabilità di essere maestro, ma soprattutto testimone per il suo popolo. Ha operato pastoralmente nell’Istria interna, a Pola, Fiume e Trieste. È passato attraverso guerre, occupazioni straniere, regimi totalitari, persecutori e democratici, trasmigrazione di popoli, smembramento di un’intera regione. Si è opposto fermamente ai soprusi e alle ingiustizie. Ha difeso i deboli e i perseguitati. Il suo impatto iniziale con il Concilio è drammatico. Si sente messo in discussione, costretto ad una repentina autocritica, sottoposto al vaglio degli aggiornamenti ecclesiali. Non si scoraggia, anzi s’impegna sempre più vivacemente intervenendo, intessendo una fitta corrispondenza, studiando documenti, arricchendosi nell’ascolto, cambiando parte del suo modo di pensare e di esercitare il ministero, lasciandosi plasmare dal soffio dello Spirito che aleggia sul Concilio.
Di questo intimo travaglio vi è vivida e schietta testimonianza nei suoi scritti, nei suoi giudizi talvolta duri e sferzanti che da un lato consentono di leggere i lavori conciliari dal di dentro e dall’altro aiutano a capire più profondamente questo vescovo, innamorato della Chiesa e deferente verso l’autorità, ma intimamente libero nel valutare gli uomini di Chiesa nei loro atteggiamenti e nelle loro scelte.